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Missoltini

L’agone che diventa missoltino rappresenta una tradizione del Lario che affonda le sue radici in tempi antichissimi, quando veniva utilizzato come riserva di cibo per i periodi invernali.
Oggi è considerato una sorta di bandiera della cultura laghera: oltre ai pescatori professionisti, anche i laghee praticano la pesca dell’agone nel periodo in cui il pesce si avvicina a riva per deporre le uova (maggio-giugno).
Un codice d’onore non scritto e sostanzialmente rispettato dai laghee regolamenta tuttora la pesca praticata da riva. Il primo dell’anno si mette un paletto sulla riva a indicare il punto in cui, in primavera, si costruirà il cavalit, un cavalletto che entra per qualche metro in acqua, dal quale si cala il sidéll o sibiél, un ampio retino con un manico lungo tre metri. Nelle zone migliori – sulla sponda comasca del Lario tra Domaso e l’Isola Comacina, su quella lecchese tra Dervio e Lierna, nel Triangolo Lariano a Lezzeno e Oliveto – i cavalletti distano l’uno dall’altro un paio di metri. Una «convivenza» così, gomito a gomito, genera qualche problema: basta il semplice sospetto che un cavalletto sia stato spostato, perché il codice d’onore venga messo da parte. Se poi qualche forestiero cerca di conquistarsi qualche centimetro di riva, allora son guai. Si cerca di fargliela capire con le buone maniere, ma se il forestiero fa il sordo, la vicenda si risolve con un tuffo in acqua.
Una volta pescati, gli agoni vengono selezionati. I prescelti per diventare missoltini sono salati, infilati con uno spago attraverso gli occhi e messi a essiccare al sole su appositi telai. Si tratta perciò di una semiconserva ittica, modellata sul tipo di altre formulazioni alimentari della società tradizionale, come i saracch e le aringhe. Una tecnica, quella dell’essiccazione, meno antica di quanto sembri dalla rusticità del piatto. La tecnica sarebbe stata elaborata nei Paesi della Lega Anseatica nella prima metà del ‘400 e non prima del ‘600 approdò sulle sponde del lago visto che né Maestro Martino (1450) né Ippolito Salviano (1558), pure accennando alla cucina dell’agone, tramandano forme di conservazione diverse dalla carpionatura.
Telai e rastrelliere, in fila lungo la riva, fecero colpo sui primi turisti che, nell’Ottocento, visitarono la Tremezzina e i borghi rivieraschi dell’alto Lario. Lo stesso Carlo Porta parlò dei missultitt, i pesci essiccati che vengono riposti in mastelli di legno (le missulte, da cui il nome preso dal pesce) intervallati con foglie d’alloro e pressati da pesi affinché producano l’olio che contribuisce alla loro conservazione. Anche questo rituale, apparentemente semplice, richiede un sapere antico grazie al quale il missoltino acquista il suo straordinario sapore. Il prodotto è infatti diverso da luogo a luogo: una anche minima variazione di habitat comporta, di conseguenza, una variazione di nutrimento del pesce. I grandi branchi di agoni dell’alto Lario, di Domaso, Gera e Gravedona, non sono naturalmente gli stessi della zona di Oliveto, Bellagio e Lezzeno. Ambienti più o meno ricchi di cibo, diversità dello stesso cibo, determinano variazioni nella crescita e nella diversificazione delle carni. Di questo occorre tener conto nella salatura, così come del periodo della essiccazione.
Sfiziosità? Tutt’altro, almeno a sentire Vittorio Posca che così descrive il tradizionale metodo di cottura: «Il pesce va scaldato sulla griglia alla brace, finché la pelle si gonfia di bolle. Va quindi raschiato bene finché pelle e scaglie siano scomparse; messo in una conca spruzzato di aceto molto buono e di un poco di olio e prezzemolo tritato, servito infine su fette di polenta abbrustolita».
Sfiziosità rimane invece la curadura, le viscere degli agoni che impastate con pangrattato e formaggio, vengono fritte nel lardo e consumate con la polenta.
La grigliatura del missoltino è breve: non deve bruciare né essiccare troppo perché diventerebbe legnoso; la sua carne deve conservarsi rossa e morbida. Nella cottura occorre che la piastra sia in leggera inclinazione, perché il missoltino deve grigliare e non friggere nel suo olio; questo deve bruciare, sprigionando il suo fumo acre in una sorta di «purificazione» del missoltino che prende, così, quell’inconfondibile sapore di lauro.
Sul lago non c’è posto – ristorante o crotto che sia, in qualsiasi centro rivierasco – dove non si introduca qualche leggerissima variante nel condimento e nel tempo in cui lasciar riposare i pesci sul piatto di portata affinché assorbano meglio gli aromi. L’uso popolare rimane comunque quello di mangiarli caldi, con la polenta fumante o abbrustolita. Su una cosa, comunque, si ritrovano poi tutti d’accordo: nel bere molto perché si dice che il missoltino rivoglia tutta l’acqua che ha perso. Naturalmente si beve vino.



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